I rifiutati

In Introspettivo, Racconti

Quando aveva sette anni un dottore con caricaturali baffi bianchi aveva diagnosticato a Luca un’acuta miopia. La madre nella sala d’aspetto l’aveva stretto al petto ringraziando il Signore che fosse solamente questa la ragione per la quale il bambino non leggeva ancora come i suoi compagnetti. Quell’anno Babbo Natale aveva portato sotto l’albero un paio di occhiali blu elettrico, con lenti spesse come vetri anti proiettile e lampi gialli sulle astine, espressione di una disperata ricerca di un decoro infantile in un oggetto che ricordava occhiali protettivi da saldatore. Luca aveva passato giorni disperato a osservare la sua figura riflessa, la curva degli occhi che adesso non riconosceva più deformata da quella delle lenti. Non capiva perché l’universo avesse voluto questo e quando Luca non capiva i perché, allora studiava. Come una fame si placa solo col cibo e la sete solo con l’acqua. Nel corso dei tre anni successivi il bambino si era perso a esaminare ogni sfaccettatura medica e biologica della questione, ogni implicazione fisica correlata a una metafisica – la luce e la sua percezione, le forme e i colori – fino ad arrivare ad analizzare con precisione di storico l’evoluzione dell’ottica e i suoi sviluppi nella scienza e nell’arte. Al capodanno dei suoi nove anni aveva passato la serata a riempire la zia Matilde di dettagli truci della sua dissezione dell’occhio di maiale, e di come questo fosse in tutto e per tutto uguale a quello umano.
A undici anni Luca aveva finalmente esaurito tutta la materia e il perché dei suoi occhiali era perfettamente chiaro, ragionevole, e questa era una soddisfazione che riempiva un vuoto altrimenti difficile da spiegare.
Ma a quindici anni il perché di una cosa molto più invasiva si affacciò alla sua vita. Questa volta era partito dallo studio biologico. Frammentario, confuso e per lo più infruttuoso. Era poi passato alle ragioni psicologiche. Nella psicologia c’era un mondo, fatto di ideologie e voli pindarici, di esperimenti sociali e dichiarazioni storiche. Durante l’autunno dei suoi sedici anni fu attraversato anche dal pensiero di ragionare sull’argomento in chiave teologica, ma l’idea di tutte quelle fiamme e di quelle parole ripetute come esorcismo ancora e ancora gli facevano sprofondare il cuore in una voragine scura. E poi c’era ancora tanto materiale da scoprire: c’era la filosofia, l’arte, la poesia, la musica, la moda. Ma soprattutto c’era la storia, una storia fatta di lotte che nessuno conosce. Tutti sanno chi era Rosa Parks, anche se fino al giorno in cui si sedette su un autobus non era nessuno. Tutti sanno cosa fece Mandela o chi marciò sulla Via del sale. Le storie delle lotte le conosciamo tutti perché sono storie che ci piacciono. Perché sono trame hollywoodiane fatte di importanti discorsi recitati su musiche sostenute e di eroi buoni che contro ogni ostilità alla fine vincono.
Ma le storie di queste altre lotte invece non le conosce quasi nessuno e questa era una cosa che lasciava Luca molto più perplesso che indignato. Per questo, messo a frutto tutto il suo studio, nell’estate dei suoi diciannove anni si presentò davanti alla commissione dell’esame di maturità con una tesi dal titolo Storia dei moti per il riconoscimento dei diritti civili delle minoranze LGBT. Aveva cominciato da Stonewall ovviamente – ogni degna narrazione delle lotte gay del xx secolo comincia da Stonewall. Dopo l’ennesimo blitz della polizia newyorkese nel ben noto club gay clandestino, tra froci e maiali scoppia la rissa, che degenera in quasi quattro giorni di scontri, proteste e barricate. Forse una bottiglia, qualcuno dice un sasso, tirato da un culattone a un piede piatto, o forse un pugno scagliato dal secondo al primo, iniziarono il tutto.
Dopo Stonewall la storia del movimento dei diritti gay è come la storia di ogni altro movimento di liberazione: una frangia moderata, che cerca il dialogo con la società intorno, e una massimalista, che chiede tutto e lo vuole adesso.
E il discorso nella comunità si spaccò. Da una parte c’erano i rumorosi, quelli che indossavano la diversità come un vanto in lunghi vestiti di paillette, in camicie a fiori di colori improbabili e maglie a rete che indicavano con precisione la dimensione dei capezzoli. Erano quelli del Glam Rock, dei cantati in make-up elaborati che su beat ballabili cantavano una mascolinità decostruita e ripresentata nuova. Erano quelli del noi contro loro, del rifiuto verso l’ipocrita e verso la fittizia istituzione eterosessuale del matrimonio. Erano quelli dell’eccesso ad ogni costo.
E poi c’erano i silenziosi, quelli della minoranza invisibile. Non volevano nascondersi, ma non volevano nemmeno essere notati. Credevano che il segreto per l’accettazione non fosse sbattere la propria devianza in faccia a tutti con una boria provocatoria, ma quella di stare in bella vista ignorati. Il loro obbiettivo era confondersi tra la massa senza rinunciare alla loro identità. Non volevano l’approvazione della folla, l’applauso scrosciante. Desideravano solo uno stralcio di legge che li considerasse cittadini, o che almeno non li chiamasse criminali. Erano il tuo dottore e la tua farmacista, il maestro dei bambini a scuola. Era l’autista dell’autobus, e l’avvocato della procura. E la postina scorbutica. Erano i tuoi vicini di casa, Jesse e Jack, che per quarant’anni avevano convissuto nella discrezione più totale, tagliando il prato due volte a settimana, facendoti gli auguri di Natale e portando a spasso il cane meno di quanto avrebbero voluto, un cane che avevano adottato per amarlo come un figlio e che avevano segretamente odiato perché non lo era davvero.
A volte Luca osservando Alessio si perdeva a pensare che probabilmente, se fossero nati in tempi diversi, più difficili, su un altro continente, loro due si sarebbero trovati sulle due fazioni opposte. Lo poteva immaginare chiaramente: Alessio che ondeggiava incurante per le strade di Brooklyn, nel viso l’androginia di un angelo. Lui invece avrebbe più realisticamente vissuto una vita fatta di casa, ufficio e riservatezza. Non miserabile, ma non felice. Forse senza mai avere il coraggio di osare innamorarsi.
A guardare il mondo oggi è difficile stabilire quale delle due tattiche abbia funzionato meglio, ma qualunque delle due vite uno avrebbe vissuto, Luca le sentiva nella loro sostanza più simili una all’altra di quanto ogni attivista del tempo avrebbe potuto tollerare ammettere.
Quanto nel bambino che capriccioso cerca attenzione battendo i piedi a terra, quanto in quello silenzioso che evita il tuo sguardo e in quel gesto ti chiede di guardarlo, Luca ci leggeva lo stesso dolore. Era il dolore del figlio. Non era la sofferenza della richiesta, era quella della necessità di doverla fare: mi vuoi? Era il dolore del figlio messo al mondo per errore e poi disconosciuto.
Quella volta all’esame di maturità Luca aveva terminato così: con l’immagine di un bambino in lacrime che chiama disperato una madre che non lo riconosce. Per un attimo la sua voce aveva tremato. Si era giurato che non lo avrebbe fatto, quindi aveva ricacciato quell’inizio di pianto da dove era venuto e si era concentrato solo sulle parole, sul rumore che gli facevano in bocca. Perché quel dettaglio adesso gli veniva in mente così nitido? La tazzina da tè della mamma faceva un rumore come di campana mentre parlava. La tazzina sbatteva sul piattino sotto di lei. E la mamma parlava piano, seguendo gli anelli di un ragionamento chiaro a tutti quanti ma che solo lei vedeva necessario. E le mani della mamma tremavano e la tazzina da tè faceva quel rumore di campana sbattendo sul piattino mentre la mamma spiegava con rigore diplomatico dove si ferma l’amore di una madre per il figlio.
Perché non mi vuoi?
Era stata una quinta liceo piena di avvenimenti.
Nella stanza Luca aveva lasciato solo silenzio. Aveva sciorinato un discorso perfetto, pensato con pause ad effetto e colpi di scena, davanti a una platea di vecchie orecchie e vecchie menti artritiche. Alla fine era rimasta chiara sul volto di ognuno di loro la domanda. Domanda che nessuno pose per un rispetto imbarazzato, che ha paura di forzarsi nell’intimità altrui.
Il presidente di commissione, un bisonte con grandi baffi a manubrio e un paio di occhiali di ridicole dimensioni – dettagli che per un momento rigettarono Luca nei suoi sette anni – tossì due volte, come cercando di far volare via un pensiero scomodo. Poi la professoressa di matematica si sistemò sulla sedia e formulò una domanda sulla probabilità condizionata e niente fu più detto sul bambino in lacrime.