Era invisibile. Non invisibile come un supereroe, magari.
Nessuno si accorgeva di lui, nessuno gli rivolgeva per primo la parola, nessuno lo invitava a cena o giocare a calcetto, nessuno si arrabbiava con lui. Agli occhi della gente sembrava non esistere.
Renato aveva trentacinque anni, era di altezza media, né grasso né magro, capelli castani, lineamenti regolari, nessun segno particolare. Parlava a voce bassa, con un tono piatto, teneva le mani nelle tasche e gli occhi fissi sul pavimento. Vestiva in modo sobrio, comodo e discreto. Non possedeva talenti o abilità innate che potessero farlo spiccare tra gli altri come un papavero rosso in un campo di grano.
Da sempre la sua vita era stata costellata di episodi singolari che avvaloravano la tesi di una beffarda maledizione.
Da bambino i suoi genitori lo scordavano ovunque: all’asilo, a scuola, al centro commerciale, dai nonni, se l’erano perfino dimenticato in chiesa il giorno della sua prima comunione.
«Dov’è Renato?» aveva chiesto sua madre a metà del pranzo con i parenti.
«Non è al suo posto?» aveva risposto il padre volgendo lo sguardo a capotavola, dove spiccavano il piatto pulito, le posate allineate e la sedia vuota. Erano tornati tutti nella casa del Signore dove lui, solo e sconsolato, era intento ad accendere tutte le candele.
Non aveva mai avuto veri amici, pareva che nessuno si ricordasse di averlo conosciuto.
Da adolescente, l’unica ragazza che aveva avuto il coraggio di invitare ad uscire, arrivata davanti al cinema dove si erano dati appuntamento, aveva scambiato un altro tizio per lui.
«Ciao Renato, è tanto che mi aspetti?» aveva salutato lei sorridendo.
«Ciao bella, ti avrei aspettato fino alla fine del mondo», aveva risposto lo sconosciuto che, senza svelare l’equivoco, se l’era portata dentro al buio a vedere il film. Renato era rimasto ad osservare la scena a bocca aperta, incredulo spettatore della sua vita recitata da un altro.
Aveva preso il diploma per un pelo, a causa delle troppe assenze segnate erroneamente sul registro e, dopo infiniti colloqui a vuoto, si era rassegnato a lavorare nella ditta di suo zio.
Era operaio nella cartiera da quindici anni, ma il suo capo turno lo chiamava ancora “l’ultimo arrivato”. Si dava da fare, si impegnava molto ma, se combinava qualcosa di buono, il merito se lo prendeva immancabilmente qualcun altro. I suoi colleghi, ogni giorno, lo guardavano come se lo avessero visto per la prima volta. Tranne il Russo. Il Russo era uno spilungone magro magro, dall’aria arcigna e dal carattere scostante. Non amava parlare del suo passato, del suo presente o del suo futuro, a dirla tutta non amava parlare affatto.
«Ciao Russo, come stai oggi?» chiedeva ogni giorno Renato, felice che un essere umano rammentasse il suo volto.
«Come ieri» grugniva ogni giorno il Russo. Non era proprio l’amico ideale con cui bere una birra a fine giornata.
Renato, che si era a poco a poco arreso all’indifferenza della gente, comprensibilmente covava dentro un continuo rancore ed il cocente desiderio di essere al centro dell’attenzione, anche un’unica volta nella vita. Solo nel suo bilocale, che i padroni di casa cercavano continuamente di riaffittare perché scordavano di avere un inquilino, sdraiato sul divano, fantasticava di essere il re della situazione, amato da donne bellissime ed acclamato dalle folle. Occorre però precisare che le splendide fanciulle nella sua testa avevano tutte il volto di Gabriella. La dolce ragazza era la segretaria personale dello zio e sogno proibito di tutta la fabbrica. Le possibilità dell’insipido Renato di farsi notare da lei erano le stesse dello iellato Gargamella di mangiarsi un puffo.
Il poveretto sospirava infelice, guardava il soffitto e carezzava il suo gatto, che immancabilmente lo graffiava sentendosi selvatico e senza un padrone.
Poi arrivò il giorno che, in ogni storia, mescola le carte in tavola, soffia i semi di tarassaco e rivolta i calzini.
Renato stava sistemando la bicicletta nella rastrelliera difronte alla fabbrica, proprio mentre Gabriella stava facendo retromarcia dal suo posto auto per andare a sbrigare una commissione. Così la ragazza lo centrò in pieno scaraventandolo a terra e facendogli grattugiare per bene la faccia. Poi ingranò la prima e ripartì senza voltarsi. Renato, seduto sull’asfalto, guardò la macchina della sua innamorata allontanarsi e sentì il cuore creparglisi nel petto. Non era scesa tutta dispiaciuta a consolarlo, non gli aveva preso il viso tra le mani per tamponargli le ferite con un fazzoletto bianco profumato di bucato, non si era nemmeno accorta di averlo investito. L’invisibile si rialzò a fatica ed entrò affranto dal portone degli operai. Nello spogliatoio si deterse la faccia scorticata e si diresse, ignorato da tutti, dal Russo, al suo solito posto, la ghigliottina, un vecchio macchinario infernale usato per tranciare il cartone.
«Che hai fatto? Hai litigato con un orso?» brontolò il Russo, intento ad accompagnare un enorme foglio ad onda doppia verso la veloce decapitazione.
«No, sono caduto dalla bici nel parcheggio», sospirò Renato, e si mise a lavorare.
Dopo un’ora di fatica la fantomatica ghigliottina si bloccò.
Il capoturno, paonazzo in volto e preoccupato per i ritardi nelle consegne, imprecò contro tutti con la dolcezza del sergente istruttore Hartman. Renato, il Russo, un senegalese sempre sorridente soprannominato Mozzarella e un ometto ciccione, basso e senza collo ribattezzato Costanzo, unirono le forze e l’intelletto per far ripartire la vecchia carogna ferrosa.
Ma, ad un tratto, la lama scese impietosa e tranciò di netto le mani dei quattro salariati. Una scena grottesca, degna dei migliori film splatter: arti sparsi ovunque, murales di sangue, urla, panico, stracci per tamponare le ferite, lacci emostatici e il tonfo del sergente istruttore svenuto sul pavimento.
Nel caos qualcuno chiamò il 118. Qualcun altro raccolse tutte le mani amputate e le ammucchiò su un tavolo da lavoro. Un altro ancora gridò:
«Le mani! Le mani! Dobbiamo metterle nel ghiaccio!».
Di comune accordo, un gruppetto di operai dal sangue freddo decise di prendere dal baule di una delle loro auto il frigo per la birra. Afferrandole delicatamente per le dita, poggiarono le estremità sanguinolente dei poveri colleghi sulle lattine di Forst e tra le siberine. Soddisfatti richiusero il contenitore improvvisato e aspettarono le ambulanze.
In pochi minuti arrivarono i soccorsi a sirene spiegate. Gli infermieri caricarono sulle barelle Mozzarella, Costanzo e il Russo. Poi, quest’ultimo, rantolò:
«Non dimenticatevi Renato!!».
Il ragazzo trasparente se ne stava in un angolo privo di sensi.
Raggiunsero l’ospedale in un lampo. Fortuna volle che, proprio quel giorno, al Policlinico Santa Maria fosse stato invitato per un seminario sui trapianti un eminente chirurgo, il Dr. Franchini. Il famosissimo professore, appreso dell’incidente, decise di sfidare sé stesso riattaccando tutti e otto gli arti ai quattro miserabili infortunati.
I suoi zelanti assistenti presero il frighetto da una delle ambulanze ed iniziarono ad appaiare le mani. Le due di Mozzarella furono le più semplici da riassegnare al proprietario, quelle paffutelle di Costanzo risultarono riconoscibili ad una seconda occhiata, le altre due paia furono molto difficili da attribuire, soprattutto data l’urgenza.
Dopo l’epica operazione, Renato e i suoi compagni di disavventura rimasero ricoverati un mese. Un tempo lunghissimo per lui, che venne ignorato dagli infermieri per cibo, medicazioni e bisogni corporei. Quando riuscì ad alzarsi ed andare da solo al bagno, la caposala diede ad un altro malato il suo letto per ben tre volte, convinta che lo avessero dimesso.
Poi, finalmente, le bende furono rimosse e ognuno poté rimirare di nuovo le proprie dita aprirsi e chiudersi afferrando l’aria. Mozzarella esultò senza riserve, Costanzo pianse di gioia, mentre Renato e il Russo si scambiarono espressioni di sconcerto, di dubbio, di perplessità. Ma in un istante la felicità ebbe il sopravvento e nessuno dei due parlò del fatto che i pezzi amputati potessero essere stati scambiati.
Renato iniziò così un faticoso periodo di riabilitazione. L’unico momento piacevole della giornata era il sonnacchioso primo pomeriggio, quando gli altri tre miracolati lo raggiungevano a casa guidati dal Russo, per scambiare due parole, confortarsi a vicenda e farsi compagnia.
Già alla prima visita, il Russo, dopo aver chiesto una birra fresca, lo aveva affrontato senza imbarazzo:
«Renato, credo che abbiano scambiato le nostre mani, ti hanno dato le mie».
«Hai ragione, le vedo diverse ma non so che farci. Non credo che ammetterebbero l’errore e le staccherebbero e le ricucirebbero. La fortuna che abbiamo avuto di incontrare il Dr. Franchini non si ripeterà», aveva risposto spaventato Renato, non voleva tornare in ospedale.
«Non ti preoccupare, mi sta bene così. Trattale bene, sono state la mia delizia e la mia croce», gli aveva sussurrato il Russo.
«Cosa vuoi dire?» aveva chiesto curioso Renato.
«Che tanto tempo fa non ero un immigrato e non lavoravo in fabbrica».
«Spiegati meglio», lo avevano incalzato tutti e tre in coro.
Ma il Russo non aveva risposto e aveva guardato fuori dalla finestra a lungo. Poi, sempre in silenzio, aveva preso la giacca ed era uscito.
Il resto della sua giornata tipo, l’imperatore dei non considerati lo trascorreva passeggiando senza meta per le strade della città, immerso nella folla indaffarata. Zigzagando sui marciapiedi si sentiva quasi come gli altri: tutti incuranti, tutti da soli, tutti di fretta.
Una sera, all’ora del tramonto, quando il sole allunga le ombre e colora i muri di arancio, Renato si fermò a prendere fiato davanti alla vetrina di un negozio di strumenti musicali. La musica non lo aveva mai interessato, eppure provò l’impulso di entrare a dare un’occhiata.
Si ritrovò davanti alla rastrelliera dov’erano esposti i violini. Tutti in fila, lucidi e perfetti. Avvertiva l’odore di acero e abete rosso mischiati alla vernice. Le effe intarsiate sulla cassa armonica sembravano un mezzo sorriso e un mezzo broncio, a celebrare il dolceamaro dei ricordi che fa affiorare la musica. Le corde in anima di budello e seta, appoggiate al ponticello, erano tese e luccicanti per il rivestimento argenteo, avvolte ai piroli come riccioli di capelli. Gli archetti, in crine di cavallo e ricoperti di pece, giacevano a fianco allo strumento oziosi, in attesa di unirsi alle corde e farle vibrare in un suono potente, caldo e morbido.
Renato si chiese come mai un vocabolario degno di un liutaio affiorasse nella sua mente familiare e nostalgico. Sentiva le mani formicolare vivaci e irrequiete nelle tasche. Le liberò dall’abbraccio della stoffa e le avvicinò alla rastrelliera. Prese un violino e lo carezzò a lungo, pervaso da una passione sconosciuta che dalle viscere saliva fino in gola, facendogli venire il singhiozzo. Trattenendo il fiato, piegò sapientemente il braccio ed appoggiò la cassa armonica sulla spalla, che la accolse con trepidante piacere.
Al contempo, con un gesto leggero che tagliò elegantemente l’aria, posò l’archetto sulle corde, quasi a mimare il volo di un’ape fino al cuore di una delicata margherita schiusa. Sfregò piano il crine di pece sul budello setoso e chiuse gli occhi. Si sprigionarono note dense, volteggianti come nere bolle di sapone pronte a solleticare, scoppiando sulla pelle, il desiderio di emozionarsi.
E Renato si commosse per quello che le sue nuove mani riuscivano a creare. Pianse in silenzio, avvolto da quella melodia proveniente da chissà dove, che sembrava abbracciarlo, coccolarlo, amarlo come nessuno mai aveva fatto. In estasi, non si accorse del gruppo di clienti che si erano fermati ad ascoltarlo. Quando smise di suonare e schiuse le palpebre, fu investito da un caloroso, lungo applauso.
Scoppiò di nuovo in lacrime, poi si asciugò gli occhi nella manica della giacca e sorrise, pieno della felicità dei sogni che si realizzano: le persone riuscivano a vederlo e lo apprezzavano.
Si trattenne a parlare col suo pubblico.
«Ma dove hai imparato a suonare così?» gli chiese una ragazza piena di lentiggini dal sorriso radioso.
«Non lo so, mi viene naturale», rispose Renato imbarazzato. Non gli era mai capitato di sostenere uno sguardo così vivo ed intenso.
«Vorrei avere il tuo talento. È stato un piacere conoscerti!» lo salutò lei, poi gli scoccò due baci sulle guance, che si tinsero subito di rosso fuoco. Renato sospirò accompagnandola con lo sguardo, quindi si diresse alla cassa e comprò il violino.
Fuori dal negozio lo assalì una nuova sconvolgente paura: immaginò Mozzarella e Costanzo che lo tenevano fermo mentre il Russo gli segava i talentuosi arti lungo le cicatrici e gridava impazzito:
«Sono mie, mi appartengono, devono suonare per me. Tu non sei mai stato nessuno e rimarrai nessuno per sempre».
In preda all’angoscia, decise in quell’istante che non avrebbe mai più rivisto i suoi compagni di sventura, gli unici amici che avesse mai avuto. Nei giorni a seguire ignorò ripetutamente il familiare trillo del campanello che annunciava l’arrivo dei colleghi.
Iniziò ad esibirsi agli angoli delle strade, non per i soldi, ma per soddisfare il bisogno di essere considerato ancora e ancora e ancora. Le sue dita leggiadre si muovevano da sole e regalavano ai passanti attimi di paradiso. La voce si sparse e il primo distratto capannello di curiosi divenne presto una piccola folla. Un giorno passò di lì Giacomo, un trombettista jazz.
«Caspita, sei un fenomeno, non mi sono accorto del tempo che passava. Io suono in un piccolo complesso e scrivo tutte le nostre canzoni. Siamo gli Swing Street e ci manca un bravo violinista. Vorremmo sperimentare un po’ di hot club jazz. Che ne pensi? Ti unisci a noi?», chiese il jazzista a Renato.
Il timido emarginato accettò con travolgente entusiasmo, pizzicandosi qua e là per essere sicuro di non sognare.
«Mi piacerebbe moltissimo ma non so leggere le note. Mi viene tutto spontaneo, dal nulla, come se fossi nato con la musica dentro», mentì Renato.
«Ho capito, suoni ad orecchio», ribatté sorridendo il trombettista, «non è un problema. Ti farò ascoltare i miei pezzi e vedrai che li eseguirai istintivamente, in fondo il jazz è soprattutto improvvisazione».
«Tentar non nuoce», bisbigliò sollevato Renato e in uno stato di pura beatitudine abbracciò Giacomo.
La settimana seguente il novello violinista iniziò le prove con la jazz band. I suoi arti ricuciti ruppero il ghiaccio per lui. Fu accolto con calore e ammirazione dagli altri artisti, degnato di un rispetto amichevole che mai si sarebbe immaginato nelle solitarie serate passate a fissare il soffitto.
Imparò velocemente tutti i pezzi jazz e swing di repertorio, riuscendo anche a migliorarne alcuni passaggi. Non aveva la consapevolezza di creare musica, erano le mani a fare egregiamente tutto il lavoro.
Dopo qualche settimana Renato prese parte, in un pub, al suo primo concerto. Era lì, sul palco, sotto i riflettori, un po’ smarrito ma finalmente protagonista, e si sentiva vivo. Quando attaccò il pezzo da solista gli tremavano le ginocchia. Tutti rimasero stregati da quella prodigiosa armonia, e si lasciarono condurre nei cantucci della loro mente dove le note gettano le braccia al collo agli scatti dei primi batticuori. Poi la musica tacque, le persone si guardarono attonite, smarrite, quasi irritate dal ritorno alla realtà, ma poco dopo scoppiarono all’unisono in un boato di consensi.
Terminato il concerto il gruppo festeggiò nel locale fino a notte fonda. Le ragazze pendevano dalle labbra della nuova star. Qualcuna gli chiese numero di telefono ma Renato non possedeva un cellulare. Non gli era mai servito.
Fu l’inizio di un periodo meraviglioso. Gli Swing Street si esibivano quasi tutte le sere e i compensi aumentavano. Così il gruppo programmò una tournee nazionale. Renato si licenziò, quindi incise dischi e apparve perfino in TV. Le sue mani erano instancabili, sicure e sembravano trascinarlo ad abbuffarsi di vita. E Renato aveva fame, tanta fame.
Rinnovò il guardaroba e assunse un consulente di immagine, Enzo, noto come Il Tramutatore.
«Renatoooo! Ma come ti dona! Devi assolutamente portare il cilindro quando suoni, lo facciamo rivestire con del raso bordeaux, intonato a queste fantastiche scarpe di vernice. Magari lungo le cuciture della giacca facciamo inserire una striscia di punti luce». La giovane commessa del negozio ascoltava ammirata lo stylist, aspettando paziente di potersi rendere utile.
«Ma Enzo, non ti pare eccessivo?» rispose l’astro nascente rimirandosi nello specchio come un pavone dalla coda di paillettes.
«Renatooo! Tu devi dettare le tendenze, non seguirle», cinguettò Enzo.
«Hai ragione, io farò la storia, della musica, dello stile e…
ma insomma ragazza, sei sempre in mezzo ai piedi? Spostati, sei fastidiosa!». La povera ragazza si scusò con quel tronfio pinguino e, mortificata, sparì nella stanza adiacente.
«Ben fatto Renato, certe incompetenti vanno messe al loro posto, meglio se in ginocchio, adoranti e servizievoli!» disse Enzo con una risatina irritante. Perché essere perfidi va sempre di moda.
Il tempo passava e l’ego di Renato si gonfiava come il pallone di una gigantesca mongolfiera. Ormai era irriconoscibile, divenuto egoista, crudele, vanesio, con quegli arti inquietanti che sembravano vivere di vita propria. Spuntando dalla camicia, agitate e nervose, con il polso decorato dal macabro ricamo delle cicatrici rosso scuro, le mani del genio presero a spintonare, a schiaffeggiare, a snobbare con sufficienza o a insultare con gesti volgari.
Così, inevitabilmente arrivò la goccia che fece traboccare il vaso degli Swing Street.
«Renato, non ti riconosciamo più. Eravamo una bella squadra, ora tu giochi solo contro tutti» si lamentò Giacomo.
«E cosa ho fatto di così grave?» rispose infastidito Renato, con le mani sui fianchi che stringevano stizzite la maglietta.
«Hai detto ai giornalisti che siamo degli incompetenti, dei musicisti da quattro soldi. Hai snobbato la mia festa di compleanno per suonare all’inaugurazione di una palestra, hai boicottato l’ultimo concerto perché sui volantini non abbiamo messo come sfondo il tuo primo piano, hai saltato le prove per fare un massaggio Ayurvedico alle tue preziosissime mani…».
«Sono io la star! Voi siete solo delle pesanti palle al piede. Vivete del riflesso della mia fama. Sono stufo di sorbirmi le vostre inutili lagne. E non tollero che tu, Giacomo, ti prenda gioco delle mie leggendarie mani! Chiudiamo qui la nostra collaborazione!» sbraitò il nuovo Paganini tutto rosso in faccia e uscì dalla stanza sbattendo la porta.
In preda alla rabbia più accecante si diresse verso casa, pensando alle parole peggiori con cui umiliare il suo ex gruppo sui social network.
Ma fuori dalla porta del suo nuovo appartamento, nell’oscurità, appoggiato al muro, trovò ad aspettarlo il Russo.
«Renato aspetta, ti devo parlare». La voce dell’uomo risuonò decisa nel silenzio della sera.
«Ah sei tu, mi hai spaventato perdio! Come hai fatto a trovarmi? Non ho nessunissima intenzione di parlare con te. Non riavrai mai le tue mani!», disse Renato.
«Ma che dici? Non le rivoglio le mie mani. Le tue mi vanno benissimo. Volevo passare inosservato e, grazie a loro, ci sto riuscendo. Nessuno mi degna di una seconda occhiata e va bene così, non mi merito la considerazione della gente».
«Non mi frega un ciufolo di te e di come vivi la tua vita. Non ti voglio più vedere, lasciami in pace». Detto questo Renato si fiondò in casa e richiuse sgarbatamente la porta in faccia al vecchio collega.
Il Russo sospirò rumorosamente, poi si diresse a testa bassa verso il bar difronte. Sconsolato alzò lo sguardo sulla polverosa insegna al neon che, ad intermittenza, invitava gli avventori ad entrare Da Leo. Quel buco sapeva di muffa e malinconia ed era deserto. Prese posto su uno sgabello al consumato bancone di legno e ordinò da bere una vodka doppia.
Poi ne ordinò una seconda, poi una terza, e una quarta, e una quinta. Leo, il proprietario, per quell’innata tendenza che hanno i baristi a fare da preti, prese a confessare l’ormai ubriaco avventore.
«Ehi amico, che ti succede? Giornataccia?».
«Non ricordo più cosa sia la felicità…» rispose con voce impastata il Russo.
«Caspita, cosa mai ti è successo di così terribile?» incalzò Leo, strofinando con vigore sempre lo stesso bicchiere.
«È una lunga storia» sussurrò lo straniero e, complice l’alcool e la voglia di sfogarsi, iniziò a raccontarla.
«Sono nato cinquant’anni fa, a Mosca, in una famiglia di musicisti da sei generazioni. Mia madre era insegnante di pianoforte, mio padre si esibiva nella sezione archi di un’illustre orchestra sinfonica. Non era riuscito a diventare primo violino, nonostante gli sforzi titanici e la disumana ambizione. Purtroppo era dotato di un’abilità mediocre. Per riscattarsi riversò su di me tutte le aspettative deluse e tutti i sogni irrealizzati», il Russo bevve un altro sorso, come per trovare il coraggio di proseguire, poi continuò: «io avevo estro e talento, così sopportavo lezioni infinite molto simili a torture, e vivevo ogni giorno con il peso di dover rendere mio padre orgoglioso di me.
All’età di vent’anni ero già primo violino da due, suonavo tutte le sere e mi sentivo un dio. Bello, geniale, famoso, avevo tutto e non mi bastava mai. L’insoddisfazione era la mia compagna di sbronze, il desiderio di fama il mio diavolo appollaiato sulla spalla. Puntavo ad esibirmi in Europa, in America, in Giappone, volevo essere acclamato in tutto il mondo. Nell’Unione Sovietica, all’epoca della guerra fredda, nulla era facile. Avrei dovuto dedicarmi corpo ed anima alla musica, ma ero un ragazzo incline alla distrazione e al vizio e mi piacevano le donne.
Mentre folleggiavo, poco importava se in compagnia di prostitute o ereditiere, incontrai una giovane cantante lirica. Sembrava un angelo. Aveva una voce meravigliosa che ammiravo e invidiavo rabbiosamente».
Il Russo tacque. Guardò a lungo il bicchiere vuoto in controluce, imprigionato in quei ricordi spinosi. Leo, curioso di arrivare al sodo, lo incalzò:
«E poi che accadde?».
Il Russo, come riportato a forza alla realtà da un mondo lontano, proseguì:
«Mi infatuai e decisi che dovevo averla. Dopo una corte spietata, alla fine, si innamorò di me e si concesse alle mie incontenibili voglie, in uno squallido camerino. Rimase incinta e voleva tenere il bambino. Io iniziai a provare paura, paura di essere incastrato, di dover rinunciare alla carriera», la voce del Russo iniziò a tremare e a vibrare lamentosa come un violino scordato. Tacque un istante poi riprese: «La situazione precipitò velocemente e una sera, complice la vodka, per farle cambiare idea arrivai a insultarla e schiaffeggiarla. Cadde a terra e si attaccò, piangendo, alle mie gambe. La scalciai via, poi, in un impeto di furia feroce iniziai a strozzarla. Vedevo le mie mani stringere il suo collo bianco. I miei tendini erano tesi e le vene pulsavano. Guardavo la disperazione affogare i suoi meravigliosi occhi azzurri, percepivo il suo dibattersi, sempre più debole, tra i rantoli soffocati. E mentre comprimevo la sua carotide mi sentivo acceso, mi pareva di assorbire come una spugna tutta la sua essenza, il suo talento, la sua creatività. Poi le sue pupille diventarono immobili, un fermoimmagine dell’ultimo istante, quello in cui la vita si spezza.
Ho ucciso. Quando me ne resi conto, fu un unico limpido pensiero.
Quella notte stessa mio padre mi aiutò a scappare e adesso sono qui. Non ho mai avuto un attimo di pace». L’assassino smise di parlare e si prese la testa tra le mani.
Leo era sconvolto. Non riuscì a dire nulla e, solo con grande sforzo, impose alle sue gambe di non fuggire via. Poi il Russo si alzò dallo sgabello.
«Quanto ti devo?» chiese guardando per terra.
«Offre la casa», balbettò il barista.
«Grazie», rispose l’omicida e si avviò verso la porta.
Barcollando sui marciapiedi affollati, un passo strascicato dopo l’altro, raggiunse la periferia. La sera era nera, un velo di foschia avvolgeva il bagliore aranciato dei lampioni.
Si fermò sul ponte sopra il canale e guardò a lungo l’acqua torbida. All’improvviso scavalcò il parapetto. Con dolcezza le sue mani, le mani di Renato, lasciarono la presa. Cadde nell’acqua quasi senza fare rumore e sparì sul fondo melmoso, finalmente invisibile agli occhi della sua coscienza e a quelli del mondo.
Non appena si seppe che Renato non suonava più con gli Swing Street, molti musicisti iniziarono a corteggiarlo. Lui decise di entrare a far parte di una famosa e affermata orchestra jazz, la Dizzy.
Dopo qualche anno di successi mondiali e tours internazionali, tornò nella sua città natale con la Dizzy Orchestra, invitato dal Sindaco a consacrare la sua carriera in un epico concerto. L’Assessore alla Cultura aveva dovuto promettere all’agente di Renato che gli avrebbe intitolato una strada e che avrebbe eretto una statua in bronzo dell’artista nella piazzetta del mercato.
Arrivò la sera dello spettacolo. Il teatro era stracolmo, i biglietti esauriti da mesi. Sul palcoscenico spiccavano dei piedistalli illuminati per ogni componente dell’orchestra. Ovviamente quello di Renato era il più alto, al centro della scena. Durante l’esecuzione del suo commovente pezzo da solista, fu baciato da un cono di luce bianca proveniente dall’alto. L’emozione del pubblico fu tale che molti suoi fan si alzarono in piedi per acclamarlo e si ammassarono a ridosso del palco.
Nelle prime file, stritolata dalla folla, sgomitava Gabriella.
Tempo prima, la bella fanciulla aveva riconosciuto Renato in TV.
«Quello lavorava con me!» Aveva strillato indicando lo schermo. Quando uno diventa famoso, allora tutti magicamente si ricordano di lui.
La ragazza aveva iniziato a seguire con passione la strabiliante carriera dell’ex operaio sui rotocalchi e aveva acquistato ogni suo CD. Se ne era a poco a poco invaghita, come un’adolescente che appende il poster del suo mito sopra il letto e lo consacra ad uomo ideale.
Finito il concerto, Gabriella riuscì ad intrufolarsi dietro le quinte. Da lontano vide Renato, circondato da quattro tirapiedi, dirigersi verso un’uscita di sicurezza che dava sul parcheggio degli artisti.
«Renato, Renato fermati sono Gabriella», urlò rincorrendolo.
Il divo si voltò ma il suo sguardo la attraversò indifferente, senza minimamente riconoscerla. Lei, la donna che gli aveva crepato il cuore, quando ancora ne aveva uno.
L’idolo uscì per primo, poi, facendosi aprire ossequiosamente la porta, si mise alla guida della sua lucente Ferrari. Il suo decimo agente, Piero, soprannominato Pierparafulmine, si accomodò al suo fianco. Intanto, la dolce fanciulla sullo spiazzo asfaltato agitava le braccia per farsi notare.
«Renato! Fermati ti prego, sono Gabriella, lavoravamo insieme, non ti ricordi?».
Renato ingranò la retromarcia senza minimamente registrare la voce della giovane, impegnato com’era a rimproverare il suo passeggero per l’acqua minerale poco gasata e per la carta igienica ruvida trovate in camerino, peraltro troppo angusto.
«Piero, quante volte devo ripeterlo? Nella ciotola degli M&M’s c’erano anche i confettini gialli. Sai benissimo che odio il giallo. E al prossimo concerto voglio scendere sul palcoscenico dall’alto con un frac bianco e delle immense ali di vaporose piume dello stesso colore…». Impegnato com’era a vaneggiare, durante la manovra, colpì Gabriella facendola rimbalzare tre metri più indietro.
«Renatooooo! Che cazzo fai? Hai appena investito una tua fan. Torna indietro! Andiamo a vedere se è ferita, sta cercando di rialzarsi, sarà meglio chiamare un’ambulanza…» strillò terrorizzato l’agente.
«Sei impazzito?» replicò con stizza il celebre bastardo.
«Renato, per favore, scendiamo. Quella ragazza urlava il tuo nome, ha detto che avete lavorato insieme. Non te la ricordi?».
Un fugace guizzo di tenerezza ammorbidì i lineamenti dell’uomo che una volta era stato invisibile, ma fu un attimo, poi il suo viso tornò di marmo e la sua voce tagliente fece rabbrividire il povero Piero.
«Non è un mio problema. È lei che ci è venuta addosso e sicuramente mi ha graffiato la carrozzeria».
«Ma Renato… io adesso corro a chiamare aiuto…» disse Pierparafulmine e scese velocemente dalla macchina correndo via disperato, più per timore di Renato che per buon cuore.
Il tiranno smontò dalla Ferrari e si avvicinò a Gabriella. La ragazza si teneva lo stomaco e singhiozzava dal dolore.
«Sei un mostro! Io ti rovino! Ti denuncio!».
«Sei tu che ti sei lanciata sotto la mia macchina! Se trovo qualche ammaccatura ti faccio avere il conto!» Renato era deformato dalla cattiveria, i suoi arti sudati gesticolavano impazziti, suonando un perfetto assolo della pazzia.
Si inginocchiò e guardò Gabriella negli occhi. D’un tratto le sue mani le afferrarono il collo bianco veloci e iniziarono a stringere forte, nervose, quasi spettrali nel buio della sera, con vene bluastre che pulsavano vistosamente. La fan sciagurata cercava disperatamente di prendere aria, di urlare agitando le gambe come un insetto capovolto. Poi più niente.
Il lugubre silenzio era rotto solo dalla radio della macchina di Renato. Trasmetteva un pezzo di Wagner, stridulo, fastidioso e carico di tensione.